Le abitudini alimentari dei popoli sono testimonianze indirette della loro religione, economia, dello stile di vita delle varie classi sociali e delle scelte ideologiche e filosofiche della classe politica.
Documenti storici antichi come ad esempio “l’Editto dei prezzi” di Diocleziano, oltre a fonti archeologiche e letterarie ritrovate dagli studiosi, consentono di ricostruire, con una certa precisione, le abitudini alimentari delle popolazioni greco-romane dall’età arcaica fino alla fase più avanzata della loro storia.
La carne era a quei tempi il cibo dei ricchi e dei nobili per eccellenza, ma anche il pesce veniva molto apprezzato, come confermano diverse testimonianze archeologiche come le incisioni in diverse monete, i numerosi soggetti della pittura vascolare e infine i recenti rinvenimenti di impianti per la lavorazione del pesce, presenti in Sicilia e in tutti i paesi che si affacciano sul Mediterraneo.
Gli antichi distinguevano due fondamentali tipi di pesce salato, a seconda che si trattasse di pesce senza squame (tàrichos tiltòn) o con squame (tàrichos lepidotòn) e procedevano al contempo ad un diverso grado di salagione, che era il principale metodo di conservazione nell’antichità.
Uno dei pesci più consumati nell’antichità era il tonno: in Sicilia specialmente sono moltissimi i ritrovamenti di presidi dedicati alla pesca, che avveniva in diversi modi vivacemente descritti nelle fonti (Aristotile, Anim, hist. VIII 12ss, ed Eschilo, Pers. 424). Il più comune dei metodi di pesca del tonno nell’antichità pare contemplasse l’avvistamento a terra da parte di vedette, issate su posti di osservazione, capaci di valutare dal colore e dal movimento del mare l’entità del branco. I tonni, stretti in una grande rete e dalle barche che si accostavano le une alle altre, se ancora vivi, venivano uccisi, a colpi di fiocina o di bastone, e tratti sulle imbarcazioni o trascinati a riva nello stabilimento per la lavorazione.
Tracce di stabilimenti per la lavorazione del tonno si riscontrano in Nord-Africa, presentano un vasto recinto quadrangolare con al centro l’impianto di salagione vero e proprio costituito da numerose vasche rivestite in cocciopesto. In prossimità sono l’impianto di riscaldamento, che accelerava artificialmente il processo di macerazione, i magazzini per la conservazione delle anfore e, in un angolo dello stabilimento, una torre per l’avvistamento dei tonni. Si tratta di elementi che riscontriamo in tutte le tonnare della Sicilia sia orientale che occidentale.
Antichi stabilimenti per la lavorazione del pesce sono segnalati in diverse fonti e sono evidenziati, sul terreno, da inconfondibili vasche, disposte in serie lungo la riva del mare, circondate da frammenti di anfore utilizzate per contenere la salsa di pesce “garum” e il pesce salato”tàrichos”.
Nella Sicilia orientale, verso il 1980 per iniziativa della Sovrintendenza di Siracusa e dietro sollecitazione del professore Purpura, sono stati rinvenuti altri stabilimenti tra cui quelli di Capo Ognina, Torre Vindicari, Pachino, Portopalo.
Nel 1981, sulla costa di Portopalo, di fronte all’isola di Capo Passero, vennero alla luce uno stabilimento per la lavorazione del pesce “apud Pachynum”, menzionato da Solino (V.6) e da Ateneo (1.6), un altro a Capo Ognina e uno a Torre Vindicari (Noto).
Lo stabilimento di Pachino, è stato utilizzato per un arco di tempo molto lungo che va dall’età ellenistica e repubblicana fino al IV-V sec.d.C. Come nel caso degli stabilimenti della Sicilia occidentale, la presenza di importanti saline, ubicate tra Portopalo e Marzameni, indica che esse avrebbero potuto essere utilizzate per la lavorazione del pesce ed induce a credere che fossero già sfruttate in età antica.
La nostra terra ha una lunghissima tradizione, come potete vedere, riguardante la lavorazione del tonno.
Oggi i metodi sono cambiati, ma il sapore rimane quello straordinario del mare mediterraneo.